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Bologna Estate racconta #4

Intervista a Amerigo Mariotti e Giorgia Tronconi (Adiacenze) al Padiglione Esprit Nouveau con la rassegna CLOSER – Becoming the city

L’arte come strumento di visione e relazione per una città che cambia

Con la rassegna CLOSER – Becoming the city, i direttori artistici di Adiacenze, Amerigo Mariotti e Giorgia Tronconi, danno vita a un programma di mostre, performance, talk e workshop per indagare le relazioni contemporanee attraverso i linguaggi dell’arte, che restituisce centralità al Padiglione Esprit Nouveau, nell’ambito di un palinsesto di iniziative promosse dal Comune di Bologna in occasione del centenario dell’originale parigino progettato da Le Corbusier.

Una rassegna per indagare lo spazio urbano come luogo di relazione, dove l’Esprit Nouveau diventa centro pulsante di una riflessione sulle trasformazioni urbane. Da dove siete partiti per costruire la programmazione?
Le relazioni contemporanee sono al centro della nostra pratica curatoriale e della rassegna CLOSER. Già nella prima edizione del progetto, avevamo affrontato questo argomento dal punto di vista delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione, ispirandoci al 150° anniversario della nascita di Guglielmo Marconi. Per questa seconda edizione, il punto di partenza è stato il centenario del Padiglione Esprit Nouveau, con cui nel 1925 Le Corbusier presentava la sua visione di un modello abitativo e di una città che rispondessero ai bisogni dell’uomo moderno. Da qui le nostre domande: come ci relazioniamo oggi, tra noi e con lo spazio che abitiamo? Come i cambiamenti delle città contemporanee influenzano le dinamiche sociali, e in che modo possiamo contribuire a plasmare territori e spazi urbani secondo nuove esigenze? Abbiamo costruito il programma coinvolgendo artistə, ricercatorə, curatorə, collettivi e associazioni provenienti da contesti nazionali e internazionali. Insieme a loro, abbiamo trasformato il Padiglione in un osservatorio attivo: un luogo di sperimentazione, dialogo e confronto, in cui riflettere sul presente e immaginare modalità alternative di co-abitare e di vivere la città. Nel costruire la programmazione volevamo creare delle occasioni di condivisione anche oltre i progetti espositivi, attraverso formati discorsivi e immersivi come talk, proiezioni, performance, laboratori, concerti e dj set.

Il Padiglione Esprit Nouveau, al confine tra memoria e visione contemporanea. Che significato assume oggi questo spazio e come dialoga con la rassegna?
Siamo abituati a lavorare in modo contestuale, site-specific.  Il progetto nasce da un ascolto del luogo, dallo studio del suo valore simbolico e dalla volontà di interagire il più possibile con esso e con lo spazio circostante, aprendone le possibilità di fruizione, non senza le difficoltà che implica un luogo “sacro” per la storia dell’architettura come è questo. Il Padiglione è sì un luogo dell’abitare, ma anche uno spazio che espone prima di tutto sé stesso. Non è uno spazio espositivo neutro, al contrario la sua identità è forte ed evidente in ogni stanza, e i vincoli legati all’utilizzo degli spazi sono diversi. Ma questi ci spingono anche a trovare soluzioni nuove e a trattare il Padiglione come un vero e proprio interlocutore che assume per noi un significato duplice: da un lato rappresenta una memoria vivente dell’utopia modernista, una testimonianza concreta del pensiero di Le Corbusier; dall’altro diventa uno spazio contemporaneo da riattivare, un laboratorio dove mettere in discussione e reinterpretare, attraverso gli strumenti e i linguaggi dell’arte, i concetti di abitare, co-abitare, collettività. In questo senso, il Padiglione non è solo il contenitore della rassegna, ma parte integrante della sua narrazione. È una presenza che interroga costantemente artistə, curatorə e pubblico, costringendoci a misurarci con la storia per generare nuovi immaginari sul futuro delle città e delle comunità. Aprirlo a pratiche partecipative, esperienze performative, installazioni, incontri, significa restituirgli una funzione viva, collettiva, in dialogo con il presente.

Qualche dettaglio sugli appuntamenti in calendario?
Tanti gli appuntamenti e gli eventi come quelli a cura del collettivo TAC – Temporary Antropological Community, il festival Terrapolis a cura di Parsec con la performance di cosmic swarm (Chiara Pitrola) e il live di Luna Lias. Mostre come Alchemical Reclamation di Sara Bonaventura, protagonista anche di un talk di approfondimento con Metabolismo Lagunare. Ospite  Dj set e concerti, come nel caso di Federica Zuddas e Giordano Bruno Masala, poi il Crochet Club a cura del Collettivo Rosole. Il Padiglione ospita Out There. The Bulgarian Loop, in occasione dei venticinque anni di Zimmerfrei, con la proiezione del loro film su pellicola The Answer Is Out There in collaborazione con Shado e Fondazione Home Movies e un talk con Martina Angelotti di Post-Colonia. A chiusura della rassegna, dal 12 luglio e fino al 22 luglio sarà visitabile la mostra DISCODIORAMA, a cura di Davide Colaci in collaborazione con Giulia Terralavoro. L’inaugurazione sarà animata da una puntata speciale del Fuorisedia podcast e dal dj set di DISASSTRO.

CLOSER genera connessioni e immaginari condivisi, coinvolgendo collettivi di ricerca, spazi indipendenti e associazioni. Perché è così importante questa presenza attiva?
È fondamentale che queste realtà siano parte attiva, perché sono proprio loro a tessere quotidianamente relazioni nei territori, e tra artisti e pubblico. Abbiamo costruito il programma di CLOSER anche come una piattaforma che potesse mettere in rete e amplificare il lavoro e le ricerche di altri operatorə e professionstə nell’ambito culturale con cui condividiamo visioni e valori, in modo che ogni momento potesse trasformarsi per noi e per il pubblico in un’occasione di scambio e di crescita reciproca, attraverso il confronto tra le diverse prospettive e specificità di ciascuna delle realtà coinvolte.

Viviamo un momento in cui la trasformazione delle città sembra accelerare ogni giorno: perché sentite il bisogno, qui e ora, di costruire ponti e fermarvi a riflettere – attraverso l’arte – su cosa significhi abitare e co-abitare lo spazio urbano? 
Questa necessità nasce dalla nostra esperienza personale e quotidiana della città di Bologna, che negli ultimi anni ha attraversato cambiamenti significativi. La crescita del turismo, la crisi abitativa, la riqualificazione di zone tradizionalmente ai margini come quella della fiera hanno reso evidente come i confini della città si stiano ridefinendo, modificando la percezione stessa delle relazioni e degli equilibri sociali. A tutto questo si aggiungono gli effetti sempre più tangibili della crisi climatica, come le inondazioni che hanno colpito duramente la nostra regione negli ultimi anni. Parallelamente, le esperienze internazionali che abbiamo vissuto ci hanno permesso di riconoscere forme di continuità e di discontinuità tra Bologna e altre città europee, rafforzando l’idea che questi temi siano condivisi e rilevanti su scala più ampia. Infine, l’esperienza di Prospettive, il progetto di residenze d’artista che dal 2020 ci porta a lavorare nei piccoli centri urbani dell’Emilia-Romagna, ci ha confermato quanto l’arte possa avere un ruolo attivo nei processi di trasformazione territoriale e sociale. Anche da qui nasce il desiderio di aprire una riflessione più ampia sul rapporto tra centro e margine, tra arte, collettività e spazio urbano.

Pensate che l’arte possa davvero contribuire a riscrivere il destino di un luogo e come sta reagendo il pubblico?
Sì, crediamo che l’arte possa avere un ruolo importante nel riportare attenzione su alcuni luoghi e nel riattivarli, ma perché questo effetto sia davvero incisivo e duraturo serve qualcosa di più di un’animazione temporanea: occorre un processo lento, strutturato, con una visione a lungo termine. In questo senso, CLOSER si configura come un laboratorio: uno spazio e un tempo di sperimentazione in cui testare nuove modalità di fruizione e condivisione di un luogo che, solitamente, viene vissuto dal pubblico solo qualche volta durante l’anno. Già in questi primi due mesi di progetto, abbiamo percepito un crescente interesse nei confronti del Padiglione Esprit Nouveau. La sua posizione decentrata e il fatto che, paradossalmente, sia più noto tra i turisti stranieri appassionati di architettura che tra i bolognesi, rappresentano sicuramente una sfida. Ma proprio per questo, chi sceglie di venire lo fa con una motivazione forte, spinto dalla curiosità o da un interesse reale per la proposta culturale. Questo rende il pubblico più consapevole, attento e partecipe.

CLOSER – Becoming the city è un  titolo che gioca su questa idea di avvicinamento. Qual è il messaggio più importante che volete lasciare con questa rassegna?
Il titolo CLOSER – Becoming the city nasce dal desiderio di esplorare l’idea di prossimità fisica come possibilità di relazione e trasformazione reciproca. In un momento storico in cui le città sembrano sempre più polarizzate, tra centro e margine, tra chi ha accesso a certi spazi e chi ne viene escluso, ci interessa immaginare la città come qualcosa che si costruisce attraverso le relazioni e la capacità di abitare insieme. Il nostro invito è a prendersi del tempo per stare, per riconoscere i luoghi e le persone che li attraversano, e per riflettere su cosa significa oggi vivere in uno spazio urbano in modo condiviso. Con CLOSER vogliamo proporre un’esperienza che non sia solo artistica ma anche sociale e politica, in cui l’arte diventa strumento per ripensare il presente e per immaginare collettivamente futuri più abitabili, più inclusivi. Becoming the city significa proprio questo: diventare parte attiva del tessuto urbano.

Cos’è Bologna Estate per te? 
Per noi Bologna Estate è un’occasione preziosa per uscire dai luoghi canonici dell’arte e portare contenuti culturali in spazi non convenzionali. È un’opportunità per coinvolgere pubblici diversi, per rendere la cultura un’esperienza collettiva e diffusa.

 

Silvia Santachiara per Bologna Estate