
Bologna Estate racconta #13
Intervista a Paolo Simoni direttore di Home Movies, Sergio Fant e Giulia Simi direttori artistici del festival Archivio Aperto
Archivio Aperto porta sugli schermi di Bologna Estate le immagini d’archivio prodotte “dal basso” tra proiezioni, restauri e sperimentazione
In programma a Bologna dal 26 al 30 settembre 2025, il festival Archivio Aperto è un laboratorio visionario promosso da Fondazione Home Movies. Il nucleo delle proiezioni è l’ex Chiesa di San Mattia, affiancata da spazi come la Cineteca (sale Lumière e Modernissimo), il DAMS Lab, il Refettorio del PARRI e, per la serata conclusiva, il Teatro San Leonardo in collaborazione con Angelica.
Home Movies custodisce oltre quarantamila pellicole, restituendo alla collettività memorie private che altrimenti sarebbero andate perdute. In un’epoca in cui siamo sommersi dalle immagini digitali, qual è il valore di queste immagini “imperfette” del passato?
PS: Il valore culturale del patrimonio di Home Movies è unico, perché permette di attraversare un secolo di storia attraverso immagini prodotte “dal basso”, al di fuori dei canali ufficiali. Sono sguardi liberi, spesso amatoriali, che restituiscono una rappresentazione diversa della nostra storia rispetto al cinema industriale, commerciale o propagandistico. All’inizio erano in pochi a filmare, ma queste pellicole ci consegnano punti di vista individuali che, messi insieme, diventano memoria sociale. Un esempio che ci sta particolarmente a cuore è quello dei film della famiglia Lavello, degli anni Venti, che presenteremo quest’anno durante la serata finale di Archivio Aperto e che sono stati già utilizzati anche dal regista Pietro Marcello nel suo ultimo lavoro. Sono materiali che restituiscono un’estetica del Novecento che pensavamo perduta.
Accanto a questo, c’è il tema dei formati ridotti – dal 9,5 mm al Super8 – che hanno permesso la nascita di un cinema indipendente, personale, militante. Un cinema libero dai condizionamenti dell’industria, che convive accanto alle riprese familiari, all’avanguardia artistica, alle testimonianze sociali e ai film politici. È un patrimonio storico che va conservato e preservato perché documenta la vita e la storia di un Paese.
Con Archivio Aperto lo valorizziamo attraverso proiezioni, restauri e collaborazioni multidisciplinari. Il nostro obiettivo, fin dall’inizio, è stato affermare questi materiali come patrimonio storico e culturale, da conservare e condividere.
Archivio Aperto non è solo un festival, ma un vero laboratorio sul riuso creativo delle memorie private. In che modo rappresenta l’evoluzione naturale del lavoro ventennale di Home Movies?
PS: Il nostro percorso si fonda proprio sull’idea di un “archivio aperto”: ciò che raccogliamo e conserviamo deve immediatamente entrare in dialogo con il presente. Le memorie private diventano così patrimonio condiviso e parte di un discorso collettivo. Questo richiede sempre una contestualizzazione storica: i film di famiglia, ad esempio, nascono come documentazione interna, ma per poterli condividere con un pubblico più ampio serve raccogliere testimonianze, dare cornici storiche, intrecciare narrazioni. Bisogna creare un dialogo con i temi della contemporaneità.
Da qui l’idea di un festival che non fosse solo una rassegna. Archivio Aperto lavora su più livelli di riuso creativo: dal restauro e dalla cura archivistica fino alla reinterpretazione artistica. Anche il lavoro d’archivio, in fondo, è un atto creativo: significa intrecciare fili, stabilire connessioni, ricostruire storie.
Il festival è nato per questo: proporre al pubblico non soltanto il recupero di materiali rari e dimenticati, ma anche nuove forme espressive che li trasformano. È un processo che riguarda tanto il contesto italiano quanto quello internazionale, e che negli anni ha reso Home Movies un punto di riferimento per la sperimentazione e la valorizzazione della memoria audiovisiva.
Il titolo scelto per questa XVIII edizione di Archivio Aperto è Time of liberations e richiama una parola che porta con sé una doppia valenza: liberazione come memoria storica, politica, sociale, culturale e liberazione come gesto creativo. Che cosa significa lavorare attorno a questa idea di liberazione, in un momento storico segnato da nuove guerre, crisi sociali e tensioni globali?
SF: Time of liberations è nato alcuni mesi fa, quando la Fondazione Home Movies stava lavorando sull’80° anniversario della Liberazione dal nazifascismo in Italia: una ricorrenza che ci ha riportato con forza a riflettere su questa parola, che ci è particolarmente cara.
La liberazione, per noi, ha più significati. Il primo è la liberazione delle immagini dagli archivi: molti dei film in concorso o delle pellicole restaurate riportano alla luce materiali poco visti, a volte dimenticati, che vengono sottratti all’invisibilità o al senso originario e tornano a parlare al presente. Già questo è un gesto politico.
C’è poi la liberazione in senso più ampio, che riguarda il nostro tempo. Viviamo una fase storica in cui i valori di democrazia e giustizia, che pensavamo acquisiti, sono nuovamente messi in discussione. Per questo crediamo che il lavoro sulle immagini possa servire anche come esempio di liberazione personale. Il nostro augurio è che i cinque giorni del festival diventino un esercizio per il pubblico, un’occasione di confronto e di immaginazione di nuove possibilità. Questo è un bell’obiettivo.
Il concorso internazionale di Archivio Aperto si concentra sul riuso creativo dei materiali d’archivio. In che modo questo dialogo tra passato e presente diventa occasione di sperimentazione artistica e di salvaguardia della memoria collettiva?
SF: Il concorso è stato introdotto per affiancare alle proiezioni di materiali storici restaurati anche opere contemporanee. I film in concorso lavorano tutti, in modi diversi, con materiali d’archivio. È una scelta molto attuale: da un lato sono produzioni a basso impatto, che riciclano ciò che il cinema ha già prodotto; dall’altro riportano in vita immagini dimenticate, spesso invisibili, le cosiddette orphan images. Si tratta di un patrimonio sconfinato di frammenti che racchiudono un potenziale straordinario, sia sul piano estetico, sia su quello politico e narrativo. Ogni film diventa così un’occasione per riportare alla luce materiali rimasti invisibili o dimenticati, esclusi dalla storia ufficiale del cinema. Sono veri e propri esercizi di visione, che ci educano a guardare con curiosità e attenzione anche altri angoli nascosti dell’immaginario audiovisivo. Se impariamo ad affinare lo sguardo, possiamo leggere significati e storie anche dove non ce lo aspetteremmo. Penso, ad esempio, al flusso incessante e schizofrenico di immagini del web: non fermarsi alla superficie, ma cercare ciò che c’è dietro, recuperando senso dai frammenti, diventa un esercizio prezioso per non restare spettatori passivi di questa valanga visiva.
Lavorare con questi materiali – spesso frammentari e privi dello “status” di opere intoccabili – è già di per sé un invito a rielaborarli liberamente. La sperimentazione quindi diventa quasi un passaggio obbligato, che sia attraverso il collage, con la sua tradizione nobile nelle arti visive, o con interventi diretti sulla pellicola, tecniche che appartengono alla storia del cinema sperimentale. È in questo dialogo creativo con materiali “minori”, come vecchi film educativi, pubblicità o repertori poco valorizzati, che nascono nuove interpretazioni e linguaggi.
Holofiction, Partition, Special Operation, The Sense of Violence, The Big Chief: sono tutti lavori che riportano a un’attualità scottante, dalla Shoah al conflitto israelo-palestinese, dall’invasione russa in Ucraina fino alle ombre del colonialismo. Come avete costruito questa selezione?
SF: Il principio che guida la selezione è la convinzione che i materiali d’archivio non siano solo documenti del passato, ma abbiano un valore attuale. Quest’anno, di fronte a un presente particolarmente conflittuale e divisivo, questa idea è stata ancora più evidente. Abbiamo incontrato temi che affrontiamo quotidianamente, che leggiamo nei media o vediamo ai telegiornali. Per esempio Partition porta in primo piano la questione del genocidio in atto in Palestina, legando le immagini dell’occupazione britannica del ‘48 ai canti e alle voci dei rifugiati di oggi; The Sense of Violence ci riporta alla guerra fredda, indagando il conflitto tra Corea del Nord e Corea del Sud e la propaganda anticomunista, divulgata anche attraverso il cinema; Special Operation mostra i filmati di sorveglianza dell’ex centrale di Chernobyl occupata dall’esercito russo nei primi giorni di invasione dell’Ucraina; infine con Holofiction e The Big Chief torniamo indietro alla Seconda Guerra Mondiale.
Holofiction riflette sulla rappresentazione dell’Olocausto attraverso migliaia di film di finzione; The Big Chief racconta invece la vicenda di Leopold Trepper, figura chiave della resistenza antinazista.
Queste pellicole non cambiano ciò che è stato, ma aprono spazi di confronto critico. La storia è vasta e non è facile conoscere tutto, ma questi filmati rappresentano piccoli contributi. L’importante è che le immagini circolino, stimolino osservazione e discussione. Ci piacerebbe che il confronto cominciato nelle sale di Archivio Aperto continuasse tra le persone nel mondo reale.
Due anteprime americane in concorso, Videoheaven di Alex Ross Perry e John Lilly And The Earth Coincidence Control Office di Michael Almereyda e Courtney Stephens, hanno un tratto in comune: la voce narrante di due attrici iconiche statunitensi. Che effetto produce sul pubblico la scelta dei registi di intrecciare materiali d’archivio con voci riconoscibili e carismatiche?
SF: È prima di tutto una questione di visibilità. Questi film partono spesso da materiali oscuri o marginali, e l’uso di voci carismatiche come quelle di Chloë Sevigny o Maya Hawke consente di renderli più accessibili e di attrarre anche un pubblico giovane. Nel caso di John Lilly, ad esempio, si racconta la vicenda incredibile di un esperto che studiava i delfini - quindi partiamo da un ambito scientifico - le cui ricerche poi sono diventate un riferimento per la psichedelica e la controcultura californiana degli anni ‘60 e ‘70 oltre a ispirare il pensiero ambientalista. Una vicenda affascinante, alquanto bizzarra e molto di nicchia, che la voce di Sevigny rende più contemporanea e vicina al pubblico. Lo stesso accade per Videoheaven, che esplora la storia delle videoteche e dell’home video: un tema che potrebbe apparire nerd, ma che acquista fascino grazie al racconto di Maya Hawke.
Credo che oggi le voci abbiano assunto un’identità quasi autonoma, anche grazie ai film d’animazione e soprattutto ai podcast e agli audiolibri, e siano percepite come un elemento narrativo potente, al pari dell’immagine. È un linguaggio ormai sdoganato, che arricchisce queste opere e ne amplia l’impatto. Viviamo in un’epoca in cui anche la voce ha acquistato una sua identità. E quindi gli attori ora la mettono più spesso a disposizione di progetti che non sono strettamente cinematografici.
Archivio Aperto si articola in diverse sezioni, come è stata costruita questa mappa del festival? c’è un filo conduttore che lega percorsi così diversi?
GS: La definizione di “mappa” mi sembra davvero calzante. Questa articolazione del programma si è costruita nel tempo. Alcune sezioni, come Storie sperimentali e Poetry, Diary and Novels, sono presenti già dal 2022, quando Archivio Aperto – storicamente una rassegna – si è trasformato in un vero e proprio festival, accogliendo anche una sezione di concorso. Da allora queste sezioni, insieme alle altre, compongono il cuore della programmazione che io seguo direttamente.
L’idea è di considerare Archivio Aperto un laboratorio: al centro c’è l’audiovisivo, ma inteso come medium materico, legato alla pellicola, e soprattutto come strumento per esplorare la memoria privata che, da personale, si fa collettiva. È una prospettiva transdisciplinare, che ci permette di costruire immaginari a partire da archivi e ricordi.
Un esempio è proprio Poetry, Diary and Novels: qui abbiamo ospitato figure come Annie Ernaux, che con il figlio aveva realizzato un film partendo da super8 familiari, o quest’anno Judith Koelemeijer, giornalista e autrice di una ricerca straordinaria sulla vita di Etty Hillesum, scrittrice ebrea vittima dell’olocausto. Anche in questo caso, le memorie private diventano storia collettiva, affrontando i traumi più profondi del Novecento.
Con la sezione La natura dell’archivio abbiamo invece cercato di esplorare il rapporto tra memoria e “vivente”, inteso non solo come essere umano, ma anche animale e vegetale, pensando a una comunità allargata a partire dalle immagini d’archivio. Quest’anno ospitiamo la filmmaker Rose Lowder, che presenta i suoi lavori in pellicola con un approccio unico, basato sul rapporto complesso tra osservazione scientifica e poetica visiva, in particolare sul mondo vegetale.
Dallo scorso anno abbiamo poi introdotto L’archivio che non c’è, realizzato in collaborazione con la Biblioteca Amilcar Cabral, per dare spazio agli archivi più fragili, spezzati, difficili da trasmettere. È una sezione che guarda in ottica fortemente postcoloniale e intersezionale, recuperando memorie dimenticate o marginali. Riportarle alla luce significa riscrivere il nostro modo di guardare al passato, e con esso il presente e – speriamo – il futuro.
Infine Storie sperimentali, che si concentra sul cinema d’avanguardia, quello povero, fatto spesso con budget molto bassi ma con grande libertà espressiva. Ogni anno l’abbiamo dedicata a figure che hanno segnato la storia del cinema sperimentale. Quest’anno il protagonista è lo statunitense Kenneth Anger, autore complesso e visionario del cinema underground.
Quest’anno dedicate un programma speciale a Marinella Pirelli, figura centrale e innovativa dell’arte italiana tra gli anni Sessanta e Settanta. Come si struttura questo omaggio?
GS: Marinella Pirelli è stata un’artista straordinaria, ancora troppo poco esplorata e studiata. Nata nel 1925 e scomparsa nel 2009, è stata attiva su più fronti, lavorando con diversi media ma mantenendo sempre al centro l’immagine in movimento. Negli anni 2000 aveva iniziato lei stessa a ripercorrere e raccontare la sua carriera, ma solo di recente è stata riportata al centro dell’attenzione, ad esempio con la retrospettiva al Museo del Novecento di Milano nel 2019 a cura di Iolanda Ratti e Lucia Aspesi.
Il centenario della nascita ci è sembrata l’occasione giusta per dedicarle un omaggio all’interno di Archivio Aperto, anche perché la sua ricerca si intreccia perfettamente con le sezioni del festival, in particolare con La natura dell’archivio, per il suo profondo legame con il mondo vegetale e con la botanica. Nella Project Room saranno presentati disegni e illustrazioni botaniche realizzate già alla fine degli anni Quaranta, insieme a opere filmiche, materiali inediti e anche degli erbari. Il programma si apre con un reading di Isabella Ragonese, accompagnata dalle musiche dal vivo della sassofonista bolognese Laura Agnusdei, che darà voce ai testi autobiografici dell’artista intrecciandoli con fotografie di famiglia e filmati.
C’è poi un aspetto che per noi è molto significativo: l’Archivio Marinella Pirelli ha scelto la Fondazione Home Movies per occuparsi del restauro e della digitalizzazione del suo vastissimo patrimonio filmico. È un lavoro complesso e lungo, ma proprio per questo ci sembrava importante che la figura di Marinella Pirelli fosse al centro del festival, come segno concreto di valorizzazione e memoria restituita.
Laura Bessega per Bologna Estate
